domenica 28 gennaio 2018

L'uomo senza talento: Recensione

  Titolo originale: Muno no Hito
 Autore: Yoshiharu Tsuge
  Tipologia: Seinen Manga   
Edizione italiana: Canicola
 Volumi: 1
Anno di pubblicazione: 1985 


Muno no Hito, terzultimo manga di Yoshiharu Tsuge prima del ritiro a vita privata, è un "manga dell'io", una presa di coscienza in cui l'autore, incapace di adeguarsi ai ritmi della modernità (Tsuge lascerà la sua professione proprio perché insofferente verso le scadenze serrate imposte dalle nascenti riviste settimanali), ammette il suo totale fallimento, sia come professionista che come uomo.  L'opera, appartenente in tutto e per tutto al filone del gekiga (i.e. immagini drammatiche), è suddivisa in una serie di episodi di vita di tutti i giorni, il cui denominatore comune è la perdita dei valori giapponesi del passato - ai quali Tsuge è incapace di rinunciare. Basti pensare alla sua collezione di pietre, che nella loro armonia rispecchiano le bellezze e le forme della natura (i.e. le usanze shintoiste), ormai incomprese e ignorate dai clienti; l'interesse per l'allevamento di specie di uccelli autoctone, verso le quali i giapponesi occidentalizzati non nutrono più alcun interesse, preferendo quelle importate dall'estero; l'attaccamento alla moda postbellica della fotografia - e così via. 

«In una zona così isolata ci sono fin troppi hotel. Un tempo era molto frequentata... le famiglie venivano a vedere sbocciare i fiori, a fare un giro in barca. Ricordo che si pescavano molte anguille. I vecchi ristoranti, i negozi... adesso sono diventati tutti hotel per coppiette.»

Tsuge, essendo nato nel 1937, al momento della stesura di Muno no Hito (1985) aveva assistito in prima persona alla guerra e alla successiva postmodernizzazione del Giappone. Il suo difficile rapporto con la moglie, presenza costante in tutto il manga, ha valenza profondamente simbolica: la libertà ch'ella si prende nell'insultare il marito, ricordandogli a più riprese il suo status di rifiuto della società incapace di accumulare profitti, stona completamente con il rispetto sacrale dovuto al capofamiglia nel patriarcato nipponico atavico. L'insofferenza di Tsuge nei confronti del capovolgimento del suo status di marito e padre è talmente evidente che egli inizialmente si rifiuta di disegnare il volto della moglie, assimilandola ad un oscuro carnefice senza identità - dovendo tuttavia ritrattare nel momento in cui tale scelta avrebbe compromesso la sceneggiatura. 


Tsuge è consapevole della sua condizione, e nel suo totale fallimento, è libero di ammettere la sua sconfitta e di spiegare le ragioni che lo hanno portato a rompere con la società (e quindi con la vita, sapendo quanto sia importante per i giapponesi la coesione sociale). Egli si assimila a figure come il cacciatore di uccelli, la cui sagoma nell'ombra ricordava quella di un corvo (paragone surreale che sta a indicare, come nel caso delle pietre, l'armonia del giapponese atavico con la natura), oppure ai preti komuso, i "monaci del nulla" buddhisti disprezzati dalla moglie occidentalizzata in quanto "inutili", senza valore, dacché pure loro incompatibili con il paradigma capitalista importato dall'occidente americanizzato.  Il punto chiave è che tuttavia Tsuge si ritrova nel limbo, tra un estremo e l'altro, senza il coraggio sufficiente per compiere una scelta radicale (il tentato suicidio, l'incapacità di lasciare la moglie e di andare a mendicare). Quello che pertanto resta da fare è ammettere la propria solitudine nell'universo, la perdita di ogni radice e sicurezza, e lasciarsi svanire pian piano nel nulla. E' proprio qui che diventa fondamentale l'inversione di narrazione che conduce al finale: Tsuge arriva a immedesimarsi nella figura storica di Inoue Seigetsu, pure lui vissuto in un periodo di transizione e occidentalizzazione (il poeta visse a cavallo del periodo Edo e del periodo Meiji).


Tra una vignetta e l'altra, lo stile di disegno di Tsuge - secco, asciutto, caricaturale e malinconico - trasmette perfettamente ciò che deve aver provato l'autore nella sua asettica parabola verso lo "svanire". Perché ciò che alla fine può rimanere della vita, talvolta, può essere un istante singolo di estrema lucidità, un frammento di memoria, un'apparazione della natura che sussurra parole inspiegabili al figlio suo, martoriato com'è dal dolore, dalla tristezza e dalla solitudine. Proprio come disse l'haiku di addio di Inoue Seiugetsu,

«All'improvviso
Il canto di una gru lontana
Nella foschia.»

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