martedì 20 dicembre 2016

Texhnolyze: Recensione

 Titolo originale: Texhnolyze
Regia: Hiroshi Hamasaki
Soggetto: Production 2nd (Yoshitoshi ABe, Yasuyuki Ueda)
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Yoshitoshi ABe (originale), Shigeo Akahori
Musiche: Reiichi Nakaido
Studio: Madhouse
Formato: serie televisiva di 22 episodi
Anno di trasmissione: 2003


«Dentro ogni persona vive un mostro che farebbe tremare dalla paura persino il suo ospite. Quelli che non furono in grado di sopprimere il proprio mostro furono esiliati in un purgatorio sotterraneo. Proprio lui nacque in quel purgatorio sotterraneo creato dall'uomo. Più di chiunque altro, ha amato e odiato il mostro dentro di lui. Assieme alla seconda madre, è giunto nel mondo di coloro che hanno esiliato la sua gente. Una volta arrivato lì, quel mondo e la sua gente stavano lentamente aspettando la loro morte. Il mondo in superficie era il mondo dei morti. Il genere umano, così come il mondo da lui creato, era ormai giunto al crepuscolo.»

E' un'insieme di sensazioni, “Texhnolyze”. Sensazioni dure, forti, viscerali. La morte del mondo, la perdita dell'umanità, lo smarrimento, la crescita e il ritrovamento di quanto perduto. Il nulla. Lo spirito. La materia. La carne, le lacrime e il sangue, che si fondono in un triste gioco di corrispondenze poetiche, malinconiche e allo stesso tempo feroci. Lo sguardo fisso di Ran, spettrale ragazzina che osserva impassibile il tutto, comunicando con la voce della città sotterranea, Lux, l'ultima roccaforte del genere umano, l'ultimo posto in cui l'umanità può ancora cercare un motivo per esistere, anche se ormai, all'infuori del dolore e della perdita, nulla le è più concesso. L'alternativa è il mondo dei morti, quello in superficie, in cui ogni cosa è sempre uguale a sé stessa, monotona, priva d'iniziativa, passione e desiderio. E' il mondo asettico dell'oggidì, con tutta la sua vuotezza spirituale? Oppure è l'estrema sintesi dell'umana condizione, una farsa che trova la sua dignità soltanto nell'elevarsi a tragedia? 


Concepito dagli stessi creatori di “serial experiments lain” e “Haibane Renmei”, “Texhnolyze” - come è lecito aspettarsi da gente del calibro di Yasuyuki Ueda, Yoshitoshi ABe e Chiaki J. Konaka - è un'opera completamente priva di compromessi, una sorta di film d'avanguardia lungo ventidue episodi la cui prima parte è prevalentemente composta da inquadrature allucinate, sguardi truci e pesantissimi silenzi. In un siffatto cupissimo marasma - elegante, sofisticato, ma allo stesso tempo grezzo e “corporeo” -, che in gran parte si rifà al cyberpunk distopico d'annata e ai cliché degli yakuza movie più underground in circolazione, non tardano a rivelarsi numerosi omaggi ad un certo tipo di cinema giapponese; difatti, per dirne una, nella sigla di apertura della serie viene citato il pugno che si erge verso il cielo che fa da incipit al capolavoro “Tokyo Fist” di Shinya Tsukamoto - e guardacaso, “Texhnolyze” si fa portatore di alcune delle tematiche care al regista, ovvero il dolore come unica verità della vita e la metamorfosi conseguente alla simbiosi tra corpo fisico e tecnologia. Ciò detto, a prescindere dalla cinefilia di un ispiratissimo Hiroshi Hamasaki (che in futuro diventerà regista del bel “Steins;Gate”), l'intento dichiarato di ABe e Ueda è proprio quello di comunicare, tramite la grottesca mutilazione del corpo, il dilemma del dolore della perdita. 

 
«Quando ho creato i personaggi, ho fatto attenzione a renderli simili a degli esseri umani viventi. In essi, dal punto di vista del design, non ci sono degli elementi simbolici e decorativi. Là fuori ci sono dei fumetti nei quali, per esempio, vedi molti spargimenti di sangue. In questo senso, penso che ci siano delle storie molto più sanguinose di questa. Ma nelle suddette storie lo spargimento di sangue non è diventato nient'altro che simbolico. Non c'è dolore, per esempio. I personaggi sono feriti mortalmente ma possono comunque andare avanti, lottando come pazzi. Nel mondo alla Shonen Jump, per esempio, questo tipo di irrealtà viene accettato come completamente normale. C'è sempre qualcosa che ti fa pensare: “Ciò è impossibile”. Non voglio questo. Nella nostra storia, se per esempio il braccio del protagonista principale viene staccato, ciò accade perché ho voluto trasmettere il vero dolore agli spettatori. E infatti ho disegnato i personaggi in modo tale da rendere questa cosa possibile.» [Yoshitoshi ABe]

«Penso che nella prima metà della storia sono stato troppo attaccato a quel punto [si riferisce alla comunicazione del vero dolore]. Ho voluto che il fatto che i personaggi avessero braccia e gambe recise fosse preso molto seriamente. Per il bene della narrazione, avrei fatto meglio a premere in avanti più rapidamente con questo genere di attitudine: “Mi hanno tagliato via gli arti, ma sono OK! Posso andare avanti!”. Ma non potevo accettare compromessi su questo punto.
In tutta la storia, gli arti texhnolyzati non sono soltanto meri sostituti degli arti perduti. Essi hanno un ruolo, come se fossero delle specie di compagni dei loro rispettivi proprietari. Hanno un significato molto importante.
Ho voluto esprimere il dolore della perdita e le cose che succedono quando gli arti reali sono perduti, pertanto la prima parte della storia è molto oscura e strascicata. Ma una volta che le persone avranno guardato la storia fino alla fine, magari penseranno: “Oh, quindi è questo ciò che i creatori volevano fare, ecco perché sono stati così persistenti nella prima metà della serie”. Ho la sensazione che capiranno. In merito a ciò che voglio veramente comunicare ai miei spettatori, non ho una risposta. E' tutto incentrato sulle cose che cambiano dentro me stesso, sulle cose che verifico dentro me stesso, sugli esperimenti che faccio dentro me stesso. Pertanto, anche se è diverso da “Haibane”, se gli spettatori sentiranno un qualche tipo di empatia, se avranno una fugace idea del tipo: “Oh, forse significa questo”... O se rimarrà qualcosa nelle loro memorie, se alcune reazioni s'innescheranno in loro mentre guarderanno lo spettacolo, allora ne sarò veramente felice.» [Yasuyuki Ueda]


«Il fascino di un uomo sta sopratutto nella sua eleganza. E negli ideali che ne stanno alla base. Ti dimostrerò che il Texhnolyze non esiste a scopo distruttivo. Ti renderò un uomo dello stesso valore di Onishi, se non perfino migliore.» [Eriko Kaneda]

Sostanzialmente, “Texhnolyze” è un viaggio di formazione, anche se questo percorso si tratta di un vero e proprio processo di “addomesticamento” del protagonista Ichise, che da animale ferito e rabbioso diventa, grazie agli arti biomeccanici che gli impianta Eriko - la sua novella donna/madre -, un essere umano dignitoso, consapevole e, in ultima sintesi, in grado di accettare il suo destino e le responsabilità che comporta il vivere da esseri umani – e non da tristi animali insensati. L'opera potrebbe altresì esser vista come una ricerca dello spirito nella materia, ma anche – e sopratutto - come un'affannosa ricerca del senso all'interno di un mondo/contesto che ne è privo. “Texhnolyze” è caratterizzato da una non proprio esplicita frammentazione temporale, in cui molteplici contesti legati al mondo di ieri si scontrano con quelli di oggi: da un lato vi è Lux, che con le sue guerre tra clan di yakuza rappresenta il passato e tutte le sue ombrose contraddizioni; mentre dall'altro vi è il mondo della superficie, ovvero un surreale presente/futuro simbolico, un non-luogo in cui la Storia ormai è finita e non c'è più niente da dire per la razza umana. In modo quasi atavico, tra immani nefandezze e sanguinosi regolamenti di conti, nella città sotterranea – paradossalmente - si combatte per lo spirito: «Onishi, lo scopo di questa battaglia è dimostrare il nostro spirito a tutti i cittadini», dice Motoharu Kimata - leader dell'Alleanza, una sorta di setta new age che si oppone all'utilizzo del Texhnolyze (e quindi alla simbiosi postmoderna tra uomo e tecnologia) – al suo nuovo compagno di battaglia. D'altro canto, Onishi, capo carismatico dell'Organo, ovvero l'organizzazione di yakuza che controlla la città, sebbene la pensi in modo nettamente opposto al suddetto, è molto chiaro quando asserisce che «Se l'unico modo di continuare a vivere in questo mondo è abbandonare corpo e anima alla follia, preferisco andare incontro al mio destino!». I tre capi clan di Lux, tra i quali vi è anche il giovane Shinji, ribelle pseudo-sessantottino cliché che crede ciecamente nella libertà come unico valore possibile (tant'è che permette ai suoi amici di andare a letto con la sua ragazza senza battere ciglio), hanno ancora un loro codice etico-morale, sebbene esso sia palesemente distorto dalla confusione ideologica postmoderna. Un discorso diverso invece vale per chi viene dalla fine del tempo, dall'immobilità assoluta: si pensi a Yoshii, rivoluzionario insensato che vuole far saltare gli equilibri di Lux soltanto per diletto, per sconfiggere la noia desolante tipica della vita nel mondo di sopra, per assaporare l'ebrezza nichilista del caos fine a sé stesso. Senza alcun valore né credo, in piena solitudine. Come un morto che cammina alla disperata ricerca di una fiamma di vita. Stesso discorso vale per La Classe, con i suoi piani di dominio assoggettati ad un uso inconsapevole e crudele della tecno-scienza – il militarismo, il conformismo, il lavaggio del cervello, la trasformazione delle persone in orrendi pseudo bachi texhnolyzati tutti uguali tra loro, il cui unico scopo è portare morte e distruzione. 

 
«Una città nasce, viene distrutta... Il responsabile viene a sua volta distrutto, e la città rinasce. E il ciclo si ripete. E' così che va la città.» [Saggio di Gabe]

Molto apprezzabili le incursioni esoteriche presenti nell'opera, caratterizzate dagli indizi critpici tipici dello stile complicato e misticheggiante dello sceneggiatore Chiaki J. Konaka, che riconduce i mutamenti ai quali vanno incontro l'uomo e le sue creazioni – in questo caso rappresentate dalla città – ad un eterno ciclo di creazione/distruzione, rimanendo fedele a quella concezione pseudo taoista che aveva già avuto modo di sfoggiare nel suo precedente “Digimon Tamers”. Sostanzialmente, nella sua cupezza, “Texhnolyze” è un anime positivo, dacché nella morte vi è rinascita e, una volta giunta la fine di ogni cosa, l'uomo è ancora in grado di ricordarsi cosa significhi “essere umani”, cosa significhi la bellezza, cosa significhi la pienezza dello spirito – il bellissimo finale della serie, che corona nel migliore dei modi due episodi finali memorabili, osannati anche dallo stesso Yoshitoshi ABe: «Chiaki J. Konaka, lo sceneggiatore, ha avuto parecchie difficoltà con gli ultimi episodi. Ci è voluto molto tempo per ultimare gli scritti, ed ero preoccupato. Ma quando vennero completati, rimasi veramente impressionato. Ho scritto la sceneggiatura di “Haibane” da solo... e ho un po' capito quanto sia difficile scrivere una sceneggiatura e quanta abilità sia necessaria per scrivere una storia di un certo livello qualitativo. Ero genuinamente colpito dalla qualità degli ultimi due episodi, da quanto fossero magnifici.»


Dal punto di vista tecnico, “Texhnolyze” è uno dei pochi anime che raggiungono il livello dell'arte con la A maiscula, tant'è che in alcune scene il regista ha inserito rimandi alle opere di alcuni celebri pittori – in particolare, il design del “mondo di sopra” è basato sullo stile di Edward Hopper, che guardacaso con i suoi dipinti trasponeva l'alienazione e la solitudine della società americana dei consumi di massa - ovviamente questa citazione ha valore simbolico e metaforico, volendo interpretare “Texhnolyze” in chiave (sociologicamente e psicologicamente) postmoderna.
La cupezza delle atmosfere, con il loro mood squisitamente dark e maledetto, viene coadiuvata al meglio da colorazioni stranianti ed alienanti, che si rivelano fredde e taglienti come rasoi. “Texhonolyze” è un tetro viaggio nelle profondità della natura umana, che forte della sua tragica complessità, oscilla continuamente tra eros e thanatos, ma anche tra (poca) illuminazione e (tanta) follia, a meno che, dopo innumerevoli scossoni, non si diventi in grado di scoprire una nuova consapevolezza dell'equilibrio, dell'armonia primigenia presente nelle cose non-umane, magari nella bellezza e nella semplicità di un fiore. Chiudendo la parentesi riflessiva e tornando alla tecnica artistica in sé, a fare da contraltare ad un comparto sonoro e visivo d'avanguardia vi è una certa tendenza all'azione – ma attenzione, non allo spettacolo – che contribuisce a dotare "Texhnolyze" di un certo grado di suspense nel contesto di una narrazione dura come il piombo, che tuttavia non è mai banale. Dice Yasuyuki Ueda: «Sono curioso di sapere come verranno percepiti gli yakuza giapponesi e le lotte tra uomini. Penso che gli spettatori si divertiranno anche se ci sono cose che non capiranno del tutto. Abbiamo inserito nella storia degli oggetti nascosti, tipo vari nemici e trabocchetti. Ci sono degli incidenti problematici causati dai conflitti tra gruppi, e abbiamo aggiunto numerosi imprevisti in queste parti della storia, sforzandoci di coinvolgere gli spettatori anche in luoghi non direttamente collegati alla trama principale. Pertanto spero che guarderanno gli episodi in ordine, aspettando con impazienza questi imprevisti.»


Per concludere, volendo vedere sé stessi in Ichise, viene da chiedersi se invero si riuscirà mai ad elevarsi in un mondo che di fatto lo impedisce; elevarsi grazie all'ausilio di una scienza ed una tecnica complementari ed armoniche all'essere umano, in grado di farlo evolvere ulteriormente anziché distruggerlo - proprio come era nelle intenzioni della dottoressa Eriko. Altrimenti, da un bagno di sangue dettato dal nonsenso, emergeranno gli ultimi oltreuomini, che una volta archiviato l'ultimo bagliore di umanità, appassiranno col sorriso sulle labbra, nelle viscere della terra, passando il testimone a quella natura onnipotente e incurante che fa della ciclicità incontrastabile la sua essenza primaria. Perché, proprio come accade nei tarocchi, alla fin fine morte non significa nient'altro che mutamento. 

Note

Le dichiarazioni degli autori presenti nella recensione sono state tradotte dall'intervista contenuta nel dvd americano dell'opera da me posseduto (appartenente alla collana “Anime Classics” della Geneon Universal, per la precisione).

In questo post vengono analizzate le citazioni alla pittura di Edward Hopper presenti in “Texhnolyze”












2 commenti:

  1. Texh approves!
    Spero che Konaka, come promesso, ritorni con un progetto valido almeno la metà di Texhnolyze... Ah, e lo stesso vale per Hamasaki.

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  2. Confidiamo tutti in Despera (secondo me come sostituto di Nakamura hanno scelto Hamasaki), sperando sempre che non si tratti di un lain 2.0 in versione ultramoe, ovviamente. :P

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