sabato 12 novembre 2016

Wet Moon: Recensione

Titolo originale: Wet Moon
Storia: Atsushi Kaneko
Disegni: Atsushi Kaneko
Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana: Star Comics
Volumi: 3
Data di uscita: 2011


«Ehi, ascoltami... che aspetto pensi che abbia il lato nascosto della Luna? Nessuno può ancora saperne niente, e sono libera di dare sfogo alla mia immaginazione, no? Però... presto gli esseri umani andranno lassù. E a quel punto, questa mia libertà scomparirà di colpo.»
– Ruri –

Si definisce wet moon (“luna bagnata”) – in italiano nota come “luna a barchetta” – una particolare fase lunare in cui la falce illuminata si ritrova coricata sull’orizzonte con le due estremità protese verso l’alto, assumendo un aspetto simile a un ghigno beffardo. Come un freddo faro nella notte, la Luna si fa da sempre osservatrice esterna delle vicende dell’uomo, che – affascinato dalla sua argentea luce – nel corso dei secoli ha alimentato innumerevoli leggende e credenze popolari ad essa legate. Ed è proprio questo richiamo primordiale e inarrestabile che sta al centro di “Wet Moon”, cupo e onirico manga pubblicato a partire dal 2011 sulle pagine della rivista “Comic Beam” di Enterbrain, e firmato da uno degli autori contemporanei più eclettici e geniali del Sol levante: Atsushi Kaneko.


Classe 1966, il maestro Kaneko esordisce nel 1998 con lo scoppiettante e nerissimo “Bambi”, che seguito nel 2001 dal ben più celebre “Soil” gli porta gli apprezzamenti di una consistente nicchia di estimatori e lo consacra in pochi anni come mangaka di culto nel ramo fumettistico underground, specialmente sul suolo francese. Per via del suo stile, che si discosta notevolmente da quello tradizionale nipponico in favore di un’impostazione assai più affine al linguaggio cinematografico e al fumetto americano indipendente, Kaneko è stato – non a torto – più volte associato ad autori del calibro di Paul Pope e Charles Burns: ma la sua maggior fonte di ispirazione, come si noterà leggendo il manga in questione, è il regista americano David Lynch, dal quale riprende visioni e suggestioni immettendole in un comparto narrativo sempre incerto e opprimente, che non si risparmia profonde incursioni in territori onirici e surrealisti.


Giappone, seconda metà degli anni Sessanta. Keiji Sada, un giovane ispettore della città balneare di Tatsumi, è sulle tracce di Kiwako Komiyama, una misteriosa donna accusata di aver ucciso e fatto a pezzi un suo collega di lavoro. Dopo essersi procurato una ferita alla testa in un misterioso incidente di cui non ha memoria, Sada è vittima di opprimenti allucinazioni e distorsioni della coscienza, che si mescolano continuamente alla realtà. A seguito di analisi approfondite, il detective scopre la presenza di un frammento metallico all’interno del suo cervello, probabilmente conficcatosi durante l’incidente; come se non bastasse, la ricerca della “squartatrice” Komiyama assume ai suoi occhi connotati sempre più ossessivi e tormentosi, trascinandolo lentamente in un mondo nascosto e oscuro, dal quale avrebbe dovuto restare lontano. Sullo sfondo nel frattempo imperversa la corsa alla luna, da tempo immemore sinonimo di quella sete di conoscenza che spinge l’uomo all’evoluzione.


Gli anni Sessanta per il Giappone furono teatro di vitali stravolgimenti sociali e culturali: il miracolo economico, esploso negli anni del dopoguerra, trainò il Paese verso la completa ricostruzione e favorì in breve tempo la nascita di un’era di benessere e armonia, coadiuvata dallo straordinario sviluppo della scienza e della tecnica. Questa fase di boom economico e prosperità socio-culturale, che passando per le Olimpiadi di Tōkyō del 1964 culminerà con l’expo di Ōsaka del 1970, vide in breve tempo l’espandersi di una vera e propria venerazione per la tecnologia e la modernizzazione, che segnò irreversibilmente l’identità culturale del popolo nipponico; nell’immaginario collettivo la fantascienza e la spinta al futuro iniziarono a trovare un posto sempre più pregnante, mentre lo sbarco sulla luna del 1969 assunse dei connotati quasi utopistici agli occhi del mondo intero. Il tutto mentre l’identità culturale nipponica andava sempre più contaminandosi.
Questo sottotesto sociale sta alla base di “Wet Moon”, che filtrando gli elementi noir e fantascientifici ci offre uno straordinario affresco dell’epoca sessantina giapponese, in tutte le sue pressioni e inconciliabilità. Il conflitto ideologico in atto emerge fin dalle prime pagine, in cui ci viene presentata una realtà dinamica e in continuo mutamento, dove le pulsioni popolari sono febbrilmente divise tra tradizione e rinnovamento, passato e futuro, Terra e Luna; una forma di dualismo contraddittorio che si nota di rimando anche nella figura femminile di maggior rilievo, la bella e tormentata Kiwako Komiyama. Quest’ultima, figura sfuggente e indefinita, più legata alla dimensione del sogno che a quella della realtà, si fa a tutti gli effetti metafora della pesante evoluzione interna alla società giapponese; da donna sottomessa e vincolata ai rigidi canoni comportamentali di una società tradizionalista e patriarcale subisce un radicale cambiamento di personalità e look, arrivando ad apparire a Sada nei panni di un’affascinante dark lady in abiti e acconciature dal taglio geometrico e futuristico, simbolo di quella spinta irrefrenabile e primordiale – quasi ossessiva, oserei dire – all’innovazione e al progresso, che da sempre caratterizza la natura umana.


«Per quale motivo bisogna comportarsi da esseri umani? Per quale motivo bisogna mantenere la propria lucidità? E se non fosse il modo per ottenere davvero quello che si desidera? Se fosse possibile raggiungere i propri obiettivi senza attenersi a questo modello? In tal caso, Sada… io preferisco abbandonare la mia umanità.»
– Mori –

Prendendo spunto dall’epoca storica e dalla pesante cappa di tenebra che tutto pare avvolgere, Kaneko modella una realtà oscura e sporca, che dietro alla facciata di sviluppo e benessere cela un universo di corruzione e vizi: un mondo invisibile e nascosto nelle pieghe dell’oscurità, sul quale l’autore dispone con mano esperta una grottesca e impietosa sfilata di personaggi marci e degenerati fino al midollo. A partire da Mori, investigatore corrotto e folle che desidera mettere le mani sui segreti nascostigli dal capo; Ruri, danzatrice ninfomane che ha scambiato il proprio occhio per un’informazione; Tamayama, misterioso informatore paraplegico e fotofobico, impossibile da reperire a meno che non lo voglia lui; i “clienti”, una cricca di misteriosi individui in abito bianco alla ricerca di un non meglio specificato oggetto, e via discorrendo; una carrellata di orride caricature umane che mette in luce il profondo disagio albergante nelle cavità dell’animo umano, in tutta la sua depravazione e immoralità.
Stagliandosi su questo vacillante sfondo si muovono dunque i due protagonisti, l’ispettore Sada e la bella Kiwako Komiyama, rispettivamente cacciatore e preda, minuscoli ingranaggi di un congegno ben più grande di loro. Sada, costante vittima di visioni, emicranie e vuoti di memoria arrecati dal frammento impiantato nel suo cervello, ha fatto della ricerca della squartatrice la propria ragione di vita, in una perenne caccia che lo trascina sempre più a fondo nel baratro della follia: il misterioso frammento si fa dunque simbolo di un’oscurità sempre più forte e presente, che attanaglia la coscienza del protagonista in un giogo caotico e annebbiante. Qual è il prezzo da pagare per ottenere ciò che si desidera? “Wet Moon” sembra porsi proprio questa domanda, mentre osserviamo i personaggi immergersi nel loro lato oscuro e abbracciare le tenebre in cambio dei loro desideri più reconditi; un impulso ancestrale riconducibile ancora una volta all’allegorica Luna (che, non a caso, è un ricorrente simbolo astrologico dell’inconscio), luogo per natura precluso all’uomo, ma che al contempo ne rappresenta oggetto del desiderio e ineluttabile meta finale. E il compimento di tutto ciò sarà rappresentato dall’epilogo, simbolicamente ciclico e aperto, che ancora una volta (e per sempre) porrà l’attenzione sul desiderio atavico, animalesco e inesauribile che caratterizza la specie umana, in un inseguimento perenne che in alcun modo potrà essere appagato.


Kaneko per quest’opera abbandona gli sperimentalismi grafici alla “Soil”, calibrando il suo stile minimale in un tratto profondamente contrastato e frazionato in un ombroso bianco e nero, quasi del tutto privo di retini e occasionalmente squarciato dal rosso brillante dell’impermeabile di Kiwako Komiyama, vero e proprio elemento ricorrente dell’opera che manifesta le pulsioni ossessive di Sada. L’autore assembla le tavole con una regia da manuale, conferendogli un montaggio serrato e quasi cinematografico per le soluzioni apportate: lo studio impressionante dello spazio e della luce si palesa in una profonda ricerca della perfezione visiva, mentre il suo sguardo indugia sui dettagli delle mani, delle bocche, degli occhi, scavando in ogni singola ruga e increspatura dei volti, mettendone impietosamente a nudo la disperata (dis)umanità. Una menzione d’obbligo va fatta ai meravigliosi ambienti, dettagliati e profondi, costruiti in particolare sulla valorizzazione del lavoro di messinscena e sulla fedelissima riproduzione degli arredi dell’epoca, operando con chirurgica precisione sulla configurazione dell’immagine e sulle scenografie che le tavole possono esaltare; la manipolazione della luce mette in rilievo forme distorte e stilizzate, nonché un uso angoscioso e sperimentale delle inquadrature e della composizione visiva.
Per via dell’impronta stilistica di Kaneko, che spesso e volentieri si concentra maggiormente sulle immagini che sui testi, “Wet Moon” è un manga da osservare più che da leggere: un’esperienza visiva dove anche il particolare più insignificante assume un’importanza chiave ai fini del racconto, dove forme e figure si accostano e si (con)fondono secondo i canoni del montaggio analogico, in un turbinio immaginifico di rara raffinatezza estetica.


L’autore inoltre dissemina l’opera di citazioni e rimandi al cinema, a partire proprio dal celebre “Voyage dans la lune” e dal sorriso sornione della Luna di Méliès, che come un’osservatrice distaccata scruta dall’alto le vicende di Sada, testimone delle sue ansie, delle sue ossessioni e dei suoi incubi psicotici. All’elemento noir – che indubbiamente pesca molto dal yakuza eiga giapponese – viene inoltre sovrapposta una coltre di inquietudine che omaggia apertamente lo straniante surrealismo di Buñuel, le modalità stilistiche esasperate del cinema espressionista e le torbide atmosfere dei film di Lynch e Kubrick, che per mezzo del sapiente utilizzo dei codici fumettistici e visivi scavano con perizia nei recessi dell’inconscio tormentato del protagonista. Innumerevoli anche le citazioni all’immaginario comune – specialmente fantascientifico – dell’epoca (gli esperimenti di Nikola Tesla, la fisica del plasma, etc.), che si legano all’intreccio in un gradito equilibrio narrativo.


In definitiva, Atsushi Kaneko si dimostra per l’ennesima volta uno degli autori più affascinanti e atipici del panorama contemporaneo, nonché probabilmente il fumettista più interessante attualmente attivo in Giappone; il suo visionario talento si sublima in un ambiguo meccanismo a incastri, dove la dimensione della realtà e quella del sogno si alternano e si confondono in una spirale di disordine e follia, che rischia di avvolgere tutto da un momento all’altro. “Wet Moon” è un’opera criptica, profondamente simbolica, capace di condurre il lettore lungo il fil rouge di un binario offuscato e sconnesso, che si intreccia con i sentieri più oscuri dell’animo umano; ritengo infatti sbagliato approcciarsi alla lettura di “Wet Moon” considerandolo un noir lineare, poiché il suo stesso intreccio trascende la canonica dimensione narrativa, assumendo connotati fortemente metaforici e metafisici. L’inestricabile racconto di Kaneko sembra riprodurre l’eco di una realtà tanto distante quanto vivida nei morbosi recessi del sogno: quell’innato desiderio che, in una fredda notte d’inverno, ci spinge ad alzare gli occhi al cielo.



1 commento:

  1. Bella recensione, grazie mille. :)

    L'ho letto da poco e, citazionismo esasperato e feticismo underground a parte, mi è parso una bella metafora sulla natura umana. Il relazionarsi dell'ego con l'ombra, la dissociazione e la coscienza; la perpetua catena di eventi messa in moto dal desiderio che deve farsi volontà per far sì che la consapevolezza finale – per quanto anch'essa transitoria ed effimera - venga raggiunta all'interno di un incubo fatto di perenne autoreferenzialità perversa. Ah, a livello di contenuti Lynch mi è parso molto meno chiaro e schematico di Kaneko (del quale tuttavia ho letto soltanto questo manga, pertanto la mia impressione potrebbe essere falsata).

    RispondiElimina