domenica 27 settembre 2015

Mobile Fighter G Gundam: Recensione

Titolo originale: Kidō Butōden G Gundam
Regia: Yasuhiro Imagawa
Soggetto: Hajime Yatate, Yasuhiro Imagawa
Sceneggiatura: Yoshitake Suzuki
Character Design: Hiroshi Osaka, Kazuhiko Shimamoto
Mechanical Design: Hajime Katoki, Kimitoshi Yamane, Kunio Okawara
Musiche: Kouhei Tanaka
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 49 episodi
Anni di trasmissione: 1994 - 1995


Yasuhiro Imagawa è indubbiamente uno dei registi più rappresentativi degli anni novanta. Autore dello storico OAV “Giant Robo: The Day the Earth Stood Still”, che seppe infondere nuova linfa vitale in un genere che all'epoca sembrava ormai aver giocato tutte le sue carte, con “G Gundam” il regista tornò nuovamente a rompere i classici topoi di una corrente stilistica ormai avariata - in questo caso il brand gundamico - attraverso il suo stile registico geniale e privo di compromessi. Non stupisce pertanto che il qui presente lavoro sia stato odiato per lungo tempo dai gunota e dai puristi del mobile suit bianco: stiamo infatti parlando di un'opera dissacrante, un vero e proprio picchiaduro lacrime e sangue nato sulla scia di “Street Fighter II”, un videogioco che andava molto di moda all'epoca; uno shounen sconvolgente in cui il bizzarro sense of humor di Imagawa si fonde alla perfezione con momenti seriosi, epici e catartici, sfociando in una storia d'amore con la A maiuscola che nei battenti finali della serie si eleva sempre più facendosi beffe di tutto, sia dei noiosissimi intrighi fantapolitici dei Gundam precedenti, sia della virilità tanto declamata in precedenza dallo stesso “G Gundam”.


Dal punto di vista della narrazione, esistono due trame in “G Gundam”: una molto semplice e banale voluta dalla produzione – quella Bandai tanto odiata da Tomino, che si era fermamente opposto al suo ingresso nella Sunrise -, in cui i Gundam provenienti da vari stati – Neo China, Neo Italy, Neo France e così via - si devono affrontare tra di loro in un torneo, al fine di decidere chi dominerà l'universo per i quattro anni successivi alla suddetta Gundam Fight; questo plot assai basico viene tuttavia reso più variegato dalla penna di Imagawa, costruttore di trame complesse in cui i colpi di scena inaspettati si sprecano. Ed ecco che prende forma il rapporto travagliatissimo tra il protagonista Domon – il pilota di Gundam più figo di sempre – e i suoi cari: complotti, tradimenti, difetti di comunicazione, divario generazionale ed errori dei genitori che ricadono sui figli. Il piacchiaduro ignorante che tanto scandalizzò i gunota, dopo essere passato attraverso la parodia, l'autoparodia e la pura spettacolarità tecnica e coleografica, si spinge ben oltre nel momento in cui Imagawa riprende alcune tematiche del precedente “Giant Robo: The Day the Earth Stood Still” e le aggiorna con grande pathos, creando nell'ultima parte della serie un vertiginoso crescendo apocalittico in cui ogni personaggio, per quanto caricaturale e cliché, guadagnerà la dignità di un tragico greco.


“G Gundam” è esagerazione, esagerazione ed esagerazione, in tutti i sensi: il coolness factor tipico del super robotico anni settanta con questo titolo viene riesumato ed aggiornato, e tornerà a dominare incontrastato nel corso della seconda parte degli anni novanta e la prima parte degli anni duemila. Dal protagonista che combatte a colpi di karate a bordo del suo Gundam, con il quale è connesso mediante un'interfaccia che ricorda molto quella del seminale “General Daimos” di Nagahama Tadao, si passa con disinvoltura a delle spacconate dragonballesche in cui dei lottatori gridano esaltati sparando assurde bolle di energia accompagnate da mantra buddhisti; ma questo è niente, il bello deve ancora venire: Yin e Yang roteanti, micidiali trivelle create con pezzi di stoffa lanciati per aria, pugni incrociati alla Ashita no Joe e calci volanti alla Bruce Lee, attacchi combinati lanciati in nome dell'amore consistenti in cuoricini giganti di energia che si trasformano in un Re incazzoso che distrugge il nemico (!) - e altro ancora. Insomma, in "G Gundam" il concetto di presa in giro viene indubbiamente elevato a pura arte.


Rimanendo in tema di prese in giro, come non citare lo spietato dileggio che colpisce i gunota e le loro manie collezionistiche: quattro anni prima del tominiano “Turn A Gundam” avremo modo di ammirare un Gundam baffuto comandato da un maggiordomo, nonché un Gundam mulino a vento, un Gundam con il cappello napoleonico, un Gundam Sailor Moon e un Gundam con l'armatura da Saint, un Gundam a forma di toro (che ovviamente rappresenta la Spagna), un Gundam vichingo, un Gundam pagliaccio e così via. E' divertentissimo osservare il modo con cui Imagawa si diletta a giocare con i luoghi comuni dei vari stati: l'italiano mafioso, il francese elegante, raffinato ed oltremodo nazionalista, l'americano tamarro, l'irlandese boscaiolo e così via. E' altresì esilarante il galeotto russo che intraprende una relazione sentimentale con la sua sadica carceriera, un vero tocco di classe!


La sceneggiatura dell'opera alterna parti molto ripetitive, caratterizzate dai vari cliché del tokusatsu settantino – mostro/Gundam della settimana, vicende autoconclusive strappalacrime, colpo finale del robot che distrugge ritualmente il nemico a fine episodio ecc. -, a dei veri e propri rush catastrofici legati da una forte continuity – le vicende orbitanti attorno al temibile Devil Gundam, una sorta di mostro lovercraftiano in grado di rigenerarsi e di assorbire la Terra con i suoi tentacoli (!). Particolarmente infelice la scelta di far affrontare molte volte tra loro i membri della cosiddetta Shuffle Alliance - la quale rappresenterebbe l'insieme di guerrieri che devono vegliare sulla Gundam Fight mantenendo l'ordine -, sebbene gli scontri si rivelino via via sempre più epici e spettacolari, nonostante la loro disarmante prevedibilità.


Come ci si aspetterebbe da un opera del genere, i personaggi sono abbastanza monodimensionali ma comunque efficaci, a parte il protagonista Domon, che dovrà mettere a freno il suo testosterone per comprendere meglio le persone che gli gravitano attorno, in primis la sua amica d'infanzia Rain, che lo ama ma che non riesce a comunicare con lui data la grande attenzione ch'egli riserva alle sue arti marziali; l'ambiguo, potentissimo e travagliato Master Asia, il quale incarna quella fredda tradizione giapponese noncurante delle ambizioni e delle aspirazioni della gioventù; e poi ci sono gli scienziati, con le loro spropositate ambizioni represse e l'invidia nei confronti dei loro colleghi più brillanti, i politici accecati dal potere che hanno perso la loro umanità e con essa il candore degli affetti; quei pochi amici veri sempre pronti ad aiutarti, i fratelli maggiori che ti guidano verso la maturazione rimanendo avvolti nell'ombra. Le scoppiettanti amiche/rivali come Allenby; i cattivi che mai ti aspettavi, animati da un complesso di inferiorità ancora più grande della loro sete di potere, che tramano da dietro le quinte per poi rivelarsi al calar del sipario, quando ogni cosa sembrava risolta per il meglio.


Tecnicamente le animazioni rispecchiano perfettamente gli standard della loro epoca; ciononostante, là dove i frames si rivelano inadeguati a descrivere una determinata scena d'azione, l'inventiva registica di Imagawa sopperisce al difetto: innumerevoli saranno gli effetti cartolina alla Dezaki, gli split screen e i primi piani intensi dei personaggi, tutte tecniche a basso costo dotate tuttavia di un indubbio carisma. Detto ciò, le invenzioni registiche di Imagawa non si limitano soltanto a quelle già sperimentate abbondantemente fin dagli anni settanta: giusto per fare un esempio, nei combattimenti si osservano determinati frames ripetuti ad alta velocità in modo da creare una sensazione di rapidità e pirotecnia indispensabile per ravvivare dei passaggi che altrimenti si rivelerebbero fiacchi e privi di pathos.
Indimenticabili determinati momenti di forte impatto emotivo coadiuvati da sperimentalismi che non hanno nulla da invidiare a quelli di Anno e soci: le emozioni dei personaggi vengono amplificate al massimo dalla regia, che si immedesima nella loro sofferenza tingendo tutto quello che sta intorno con potenti poesie d'immagini. Personalmente, l'espressionismo di alcune scene ha fatto sì ch'esse mi siano rimaste particolarmente impresse nella memoria – una su tutte: Allenby che si trasforma in una fatina, penetra nei pensieri di Domon e gli fa capire che deve dire a Rain che l'ama: la scena avviene in una specie di spazio siderale prevalentemente azzurro, che ben si adatta all'introversa e quanto mai emozionale liricità del momento.


L'estrema inventiva registica di Imagawa si nota altresì nelle brillanti sigle di apertura e di chiusura della serie; in particolare è da notare l'effetto visivo straniante della prima ED: il riflesso presente sull'orecchino di Rain riflette il viso della stessa Rain, e questo paradossale gioco di prospettive impossibili viene ripetuto in loop durante tutta la sigla, accompagnato da un brano J-POP squisitamente novantino che sottolinea la femminilità del volto acqua e sapone della protagonista.


In conclusione, devo ammettere che provo una certa nostalgia nell'ammirare i fondali interamente disegnati a mano dell'epoca, assolutamente privi degli stridenti abusi di computer grafica che vanno tanto di moda oggigiorno. Nel caso di “G Gundam”, parliamo di innumerevoli ambientazioni dal fascino innato, che vanno da desolati paesaggi post apocalittici a galassie, deserti, città dalle mille luci (Neo Hong Kong), boschi, colonie orbitanti et similia, delle località disegnate e colorate al prezzo di un'estenuante lavoro manuale da parte degli animatori.

 
Da notare come il celebre capolavoro videulico “Xenogears” omaggi in modo molto evidente “G Gundam”: si pensi ai robot distrutti a mani nude da misteriosi individui che padroneggiano le arti marziali, ai punti in comune per quanto concerne la caratterizzazione di alcuni personaggi, ai palesi dettagli stilistici che accomunano il robot divino che dà il nome al gioco con il formidabile Dio Gundam, il mecha più potente del protagonista Domon.
Le musiche dell'opera costituiscono - assieme alla regia - il suo più grande pregio: si tratta di una colonna sonora lirica e maestosa la quale, una volta trovata la giusta alchimia tra scenografia e BGM, è in grado di accentuare l'epicità di quanto narrato, un'insieme di suoni e immagini dotato in ogni suo singolo frammento di quell'inarrivabile mood anni novanta che al giorno d'oggi affascina più che mai con la sua innata carica di carisma e mistero all'infuori del tempo.
















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