sabato 4 luglio 2015

Cowboy Bebop: Recensione

 Titolo originale: Cowboy Bebop
Regia: Shinichiro Watanabe
Soggetto: Hajime Yatate
Sceneggiatura: Keiko Nobumoto
Character Design: Toshihiro Kawamoto
Mechanical Design: Kimitoshi Yamane
Musiche: Yoko Kanno
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anni di trasmissione: 1998 - 1999


L'anime di cui mi accingo a scrivere è una space opera postmoderna, in cui gli spunti creativi di base mutuati dall'illustre "Space Adventure Cobra" di Osamu Dezaki vengono coadiuvati da molteplici incursioni in generi differenti - commedia, hard boiled, noir, action, psicologico, senza disdegnare sfumature cyberpunk - e amplificati dal notevole bagaglio culturale degli autori, una vera e propria enciclopedia del cinema e della musica occidentale. Nasce così un mosaico citazionistico di grande successo e carisma, nonché una delle opere cardine dell'animazione giapponese degli anni novanta: il celeberrimo "Cowboy Bebop".
E' molto interessante osservare che esiste una ricorrenza comune nella grande architettura dalle molteplici sfaccettature che costituisce il lavoro della vita di Shinichiro Watanabe, giacché nel profondo attinge direttamente dal folklore giapponese; infatti, tolti i vari strati di citazionismo e postmodernismo, in "Cowboy Bebop" si osservano delle marcate analogie tra le storie e le psicologie dei vari personaggi e l'affascinante mito di "Urashima Tarou", il quale - seguendo l'esempio di molti registi precedenti a Watanabe - viene utilizzato come metafora della fenomenologia della postmodernità.


I personaggi di "Cowboy Bebop", antagonisti inclusi, sono in gran parte degli Urashima nel palazzo del Dio Drago, ovvero degli individui che vivono in uno stato di "sospensione" della propria esistenza; individui i quali posseggono soltanto nebulosi frammenti di dei trascorsi tristi, confusi e dolorosi che devono essere dimenticati: un passato perturbato dalla sofferenza derivante da antichi traumi, il quale non può essere affrontato, altrimenti sarebbe come aprire la scatola di Otohime. Detto ciò, la grandezza dell'opera risiede nel fatto che ogni personaggio sarà obbligato dalle circostanze ad aprire la sua rispettiva "scatola", seguendo un percorso di ricerca interiore che culminerà in un annichilente "scongelamento" della propria regressione nella giovinezza. La bella Faye Valentine, ad esempio - una truffatrice un po' svampita la quale passa la maggior parte del suo tempo a curare il proprio aspetto esteriore - è sessualmente inattiva, nonostante il suo innato sex appeal, e l'oggetto principale delle sue attenzioni non è una persona a lei vicina, ma un vecchio nastro in cui sono presenti pochi fotogrammi dei suoi ricordi infantili. In una delle puntate più intense dell'anime, Faye ritornerà nei luoghi della sua infanzia, rivivendo la medesima grande, gelida solitudine provata dal mitologico pescatore. Uno degli antagonisti, un inquietante bluesman di giovanissima età, è stato reso immortale dalle radiazioni; ciononostante, nel momento in cui Spike lo spingerà ad affrontare il passato, lo farà vaporizzare istantaneamente, allo stesso modo di Urashima Tarou. Continuando con gli esempi, lo psicopatico antagonista "Pierrot le fou" manifesta una pura regressione allo stadio infantile: un "congelamento" necessario a sfuggire a un passato frammentario e venefico il quale, una volta riaffiorato in superficie, porterà alla dolorosa coscienza di sé stessi e della propria reale condizione, con conseguente annullamento del proprio essere. E' molto affascinante notare come quest'opera riesca a utilizzare una commistione molto complessa di elementi culturali appartenenti ai campi più disparati al fine di lanciare un chiaro messaggio esistenzialista allo spettatore, facendo convergere il tutto con grande maestria stilistica.


Sono quindi i personaggi il grande punto forte di "Cowboy Bebop". A una confezione di ottima fattura si aggiunge un ricorrente dramma umano che trova compimento nel destino ultimo del carismatico protagonista Spike, il quale, allo stesso modo di Cobra, è un ex malvivente che per sfuggire all'organizzazione in cui lavorava in passato è stato costretto a cambiare identità, e a iniziare una nuova vita sotto diverse spoglie. Nonostante il suo temperamento introverso e apparentemente superficiale, egli si ritroverà in breve tempo circondato da un sincero calore umano: si pensi al burbero ex poliziotto Jet Black, ovviamente anch'egli novello cacciatore di taglie con un passato da riscoprire e una condizione di "congelamento" da superare; alla scimmiesca e geniale Hacker Ed; alla già citata Faye Valentine.


La lotta di Spike contro l'organizzazione - e, in un certo senso, contro sé stesso - costituisce la trama principale dell'anime, un soggetto che si risolve in pochi episodi ed è coadiuvato da molte vicende autoconclusive in pieno stile Shinichiro Watanabe. Si passa da episodi leggeri e scanzonati a vere e proprie prese in giro dello spettatore (il buffo episodio dell'aragosta nel frigorifero); e ovviamente non mancano all'appello molte storie tragiche in cui è presente una marcata introspezione psicologica dei personaggi.


Le splendide musiche dell'opera, composte da una Yoko Kanno nel suo periodo più artisticamente fecondo, meritano un paragrafo a parte. L'alchimia suono/immagine di "Cowboy Bebop" è perfetta, ed è ben evidente che il regista e la compositrice si siano ispirati a vicenda durante la realizzazione dell'anime: tra una scena e l'altra si passa da brani spiccatamente jazz al blues del Texas suonato con l'armonica a bocca, sino ad arrivare a delle sonorità reminiscenti del rock progressivo anni settanta (si pensi al brano che compare nell'episodio "Pierrot le fou", il quale è molto simile al celebre "On the Run" dei Pink Floyd). Le sigle di apertura e di chiusura sono anch'esse di grande qualità, iconiche e perfettamente adatte a rendere istantaneamente lo spirito spiccatamente postmoderno dell'opera.


In conclusione, volendo riallacciarsi un'ultima volta al substrato filosofico di "Cowboy Bebop", si osserva che esso è consistente con i mutamenti sociali in corso nel Giappone degli anni novanta. L'opera contiene numerosi riferimenti alla nascente informatizzazione delle comunicazioni, e ovviamente non manca all'appello un cyberspazio rappresentativo di internet; in una puntata, in particolare, si assiste al confronto dei protagonisti con una folle setta religiosa che intende trasferire le coscienze di tutta l'umanità nella rete, in modo tale da elevarla a un piano superiore di esistenza.
In "Cowboy Bebop" è presente un vero e proprio monito contro l'abuso di tecnologia: tali messaggi all'epoca erano i sintomi dei cambiamenti che stavano avvenendo nella società giapponese appena entrata nella postmodernità, e delle paure che tale transizione, congiunta al rapidissimo sviluppo del settore terziario, induceva nei Giapponesi dell'epoca. Gli anime più rappresentativi degli anni novanta, in un certo senso, erano dei prodotti di consumo che tendevano a "prendere coscienza di sé stessi", sfociando nell'analisi dei problemi esistenziali dei giovani spettatori, i quali si sentivano disorientati e senza spunti di autorealizzazione in un tessuto sociale diventato sin troppo velocemente frammentario e tendente alla stagnazione. Non si tratta quindi di un anime superficiale e, nonostante i vari rimandi alla cultura occidentale in esso presenti, la sua sostanza rimane comunque tipicamente giapponese. Ed ecco che la condizione di Urashima Tarou analizzata in precedenza diventa un artificio metaforico il cui scopo è parlare a delle persone "congelate" nei ricordi della loro giovinezza e incapaci di crescere, forse a causa della durezza, della frenesia e della piattezza della loro stessa società. Volendo usare le parole di Hideaki Anno: «In Giappone ci sono solo bambini. Questo è un paese di bambini.»












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