mercoledì 29 ottobre 2014

The Tatami Galaxy: Recensione

  Titolo originale: Yojouhan Shinwa Taikei
Regia: Masaaki Yuasa
Soggetto: Tomihiko Morimi
Sceneggiatura:Makoto Ueda
Character Design: Nobutake Ito
Musiche: Michiru Oshima
Studio: Madhouse
Formato: serie televisiva di 11 episodi
Anno di trasmissione: 2010

 
Un giapponese che parla del Giappone, Hiroki Azuma, nel suo libro sulla filosofia postmoderna, definisce l'otaku come un consumatore ossessivo-compulsivo paradossalmente caratterizzato dallo snobismo tipico del periodo Edo. L'otaku è anche un costruttore di mondi immaginari, un escapista che ama sostituire le tristi esperienze - e delusioni - del quotidiano con mondi fittizi e illusori, amando feticci anziché persone reali - volendo, anche eleganti donne-artefatto legate ad arcaici canoni di bellezza, non più riscontrabili in una frenetica società animalizzata come quella giapponese. E' bene specificare che quello dell'otaku sia un caso limite del giovane figlio della postmodernità, soggetto in genere alienato dal mondo che lo circonda, giacché non riesce a trovare in esso - e in sé stesso - punti di riferimento stabili con cui identificarsi. Il protagonista di "The Tatami Galaxy" indubbiamente soddisfa tutti questi requisiti, a parte il non essere un consumatore ossessivo-compulsivo: egli è una persona passiva, dalla parlantina veloce e dal flusso di coscienza delirante, costantemente alla ricerca del "bello" in un mondo che non rispecchia affatto le sue elevate pretese snobistiche. In ogni episodio lo sventurato andrà incontro a determinati fallimenti sul piano sociale e sentimentale, arrivando addirittura a rinchiudersi in casa come un vero e proprio hikikomori, oppure ad amare platonicamente una bambola - a suo dire - bellissima, dalla raffinata pettinatura e dal portamento elegante. Con una regia estremamente dinamica, postmoderna, estremizzata, dilatata e nevrotica, l'ottimo Masaaki Yuasa mette in scena una commedia incentrata sui problemi tipici di un giovane giapponese dall'identità frammentaria, non definita - egli non ha nemmeno un nome - che si appresta a intraprendere le prime relazioni sentimentali e ad affrontare l'ambiente universitario.


Su un diverso piano di lettura, a mio avviso l'opera contiene altresì una metafora vagamente buddhista negli intenti: i continui "reset the world" che avvengono dopo ciascun fallimento del nostro antieroe sono delle vere e proprie catene che lo vincolano a ripetere eclatanti errori di predisposizione mentale; la ciclicità delle - seppur vincolate, direbbe il "saggio" della serie - possibilità dell'esistenza potrebbe essere un'arguta rappresentazione della ruota del divenire, che imprigiona le vittime della tirannia dei preconcetti e delle costruzioni mentali aliene al mondo reale. Il "demonietto" che inganna sempre il povero protagonista senza nome si potrebbe leggere come il dominio della mente, delle teorie che cercano di spiegare un mondo esterno la cui sostanza è collocata al di là del velo illusorio con cui il nostro intelletto lo filtra e lo plasma in modo meccanico e aleatorio. I velocissimi monologhi che accompagnano ogni puntata sono infatti artificiosi, delle illazioni caratterizzate da una logica folle che mediante processi inconsci privi di consapevolezza diventano aberrazioni, che distorcono la percezione soggettiva del protagonista nei riguardi della realtà sensibile e degli affetti. Tuttavia, in modo molto intelligente, il suddetto acquisterà via via qualche briciolo di consapevolezza in più, e lo show diventerà una sorta di metanarrazione in cui, gradualmente, le immagini reali prenderanno il posto dei disegni, dando un senso di "pienezza" nella non-narrazione che caratterizza l'opera. Con l'avvento della consapevolezza, il mondo falsato e distorto dalla mente del protagonista/spettatore diventerà il "mondo reale possibile".


Nonostante i suoi risvolti impegnati, "The Tatami Galaxy" è una serie molto divertente da vedere; pare quasi il prodotto di un ipotetico Woody Allen giapponese sotto effetto di allucinazioni da LSD: lo stile è proprio quello, con quei monologhi schizzati e quelle metafore del quotidiano coadiuvate da colori sgargianti, inquadrature da malati di mente, un cowboy testosteronico che sta lì a simboleggiare le pulsioni sessuali, incursioni nel kitsch e nel nonsense più spinto. In particolare, la vetta la si raggiunge con le paranoie amorose del nostro protagonista, combattuto tra una corrispondenza letteraria fasulla, una bambola "parlante" - come già accennato "bellissima ed elegante" - e un'igienista dentale in piena crisi ormonale. Le musiche sono sempre integrate con quel delirio visivo che è la grafica, e in particolare è notevole la sigla di chiusura, che nel suo simbolismo contiene implicitamente una raffigurazione delle possibilità della vita, le quali si ampliano "aprendo le porte" delle stanze della nostra mente; mente che deve essere - appunto - aperta, libera, come una stanza a cinque tatami che si collega con altri lidi, con altre ramificazioni; perché tenendo le porte chiuse non si andrà mai da nessuna parte, si rimarrà per sempre confinati nella stanza a cinque tatami della solitudine e dell'indifferenza.










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